Giulio
Stocchi

In
tempo di guerra
Giulio Stocchi è nato nel
1944.
Ha
studiato filosofia all'università statale di Milano e recitazione all'Accademia
dei Filodrammatici.
La
sua attività poetica pubblica è iniziata nel 1975.
Da
allora, e per molti anni, i suoi palcoscenici sono stati le piazze, le fabbriche
occupate, le manifestazioni popolari; oggi i teatri, le sale di conferenza, le
università: ma sempre caratterizzando la sua poesia per un originalissimo
contatto con il pubblico.
Particolarmente attento alle
valenze sonore della poesia, Stocchi ha pubblicato diversi dischi: Il dovere di cantare (Premio
nazionale della critica discografica), Punto e a capo, La cantata rossa per Tall el
Zaatar (con la collaborazione del musicista Gaetano Liguori),
Da sogni e da città
sempre con Liguori.
Ha
pubblicato presso Einaudi il volume di versi e prosa Compagno
poeta.
E’
in corso di pubblicazione presso la CUEC di Cagliari L’altezza del
gioco.
Fa
parte del Club Psòmega che unisce
artisti, filosofi, scienziati nello studio del pensiero
inventivo.
Ha
partecipato con suoi saggi e poesie ai volumi collettivi Il pensiero inventivo, Milano, Unicopli,
1992 e La vita inventiva, Napoli,
ESI, 1998, di cui è co-curatore.
Indice
3
E il colpo la sorprese
5
Il dolore degli umili
6
ahi
figlio
7
Il pioppo al vento
8
figlio
9
La semina del raccolto
10
figlio
11
Incendiavano tutto
12
Guarda il telefono
13
A futura memoria -I-
14
massacratori di
bambini
15
Ricordi?
16
figlio
17
Cenere
18
Tenere un capo del filo
19
finché
20
Notte di questa città
21
A lungo discussero
22
A futura memoria -II-
25
Ma ecco come
26
Nome mio d'assenza
27
perché questo
silenzio?
28
Tutto è tranquillo
29
Di questa morte
30
Il nodo centrale -I-
32
C'è sempre
33
Il nodo centrale -II-
35
E noi sospinti
36
A futura memoria -III-
37
il mio
bambino
38
Non torneremo
39
e secondo il suo
destino
40
Volgiti a me
41
Il cielo è alto
42
Ciò di cui si parla
43
Come non ha
44
Il mai fatto
45
L'acqua scorre
In copertina, Il nodo centrale, quadro di Veronica
Menghi.
E il colpo la
sorprese
maestosa che
volava
nel cielo suo
liquido
lenta battendo le
ali
nella silenziosa
penombra
che il sole a malapena
mitigava
illuminando coi suoi
raggi
il
dardo
che con un breve
sussulto
la trafisse durammo
molta fatica a
trarre
quell’aquila dei mari a
riva
fiera che lottava per
sfuggire
al ferro che
l’inchiodava
col suo artiglio come
umiliata ci apparve
allora
fuori dal suo
abisso
cercando di trascinarsi
ancora
impotente la fiocina
confitta
e la bocca spalancando
muta
a maledizione o
preghiera
verso il regno di cui fu
sovrana
e sferzando l’aria con la
coda
invano e subito uno la
recise
là dov’era la radice del
veleno
ma quella dibattendosi
rifiutava di morire così che
afferrata una grossa
pietra
prendemmo a percuoterla in
silenzio
che sempre tentava di
guadagnare
scampo ed era solo quel
silenzio
rotto dai colpi
sordi
e l’ansimare nostro finché
con un ultimo
guizzo
nera ricadde e
immobile
quindi l’animale
giacque
di fronte al mare
lasciando
una lunga striscia di
sangue
che l’onda di
risacca
non riusciva
a
cancellare
In tempo di
guerra
Sentinella, a che punto è la
notte?
L’alba sta per
venire
ma la notte non è ancora
terminata.
Non stancatevi.
Tornate.
Domandate
Isaia
Se questo resta
com’è
siete
perduti.
Il vostro amico è il
cambiamento,
Il vostro compagno di
lotta
il
dissidio
B.
Brecht
E vedendo il fumo del suo
incendio,
guarderanno da lontano per
paura del suo tormento, e
diranno: -Ahi, ahi
Babilonia, città eccelsa, città
forte! in un attimo, ecco, è
caduta su te la tua
condanna
Apocalisse, 18, 9,
10
Il dolore degli umili i
percossi
ingiustamente i pazienti
quelli che
sostengono l’architrave del
mondo
l’onda che si perde sulle
spiagge
un brivido di vento la
preghiera
in questa valle gementi o
signore
che nella notte si leva
tremando
dove passa in silenzio la
luna
ahi
figlio
figlio
figlio
che ti porto sulle
braccia
e che i tuoi anni mi
pesano
figlio
come tre spade
d’assenza
per ferirmi il
cuore
Il pioppo al vento. Ondeggia
e
sogna. Il canto del
tordo
alla sua cima
echeggia
Cerchia di mura lontana. La
bruma
ha filato silenziosa la
lana. Giorni
e stagioni: bambini e
vecchi
Naviga lento l’airone nel
suo mare di vento
e la domanda: "chi è?" "chi
è?" lo insegue,
l’ossessiona, lo spinge, più
in alto, più in alto.
La bimba davanti allo
specchio smette per un
attimo di giocare con lo
scialle della mamma
La radio dei vicini
borbotta
un incomprensibile
oracolo:
cent
ab crat mor ter not
est comunque in
att
Dal ramo il tordo è volato.
Il pioppo è solo, quasi
addormentato. Anche l’airone
è scomparso.
Nel tramonto, che a stento
butta il suo sangue, viene
zufolando per i campi una
figura scarna:
agita nella penombra in un
gesto largo le braccia
figlio
che t’hanno
spezzato
perché io più non
veda
la primavera del tuo
sorriso
figlio
e dolcemente prendere
forma
il tessuto promesso dei
giorni
figlio
La
semina del
raccolto
Coloro che
furono
vivi
che
amarono
che
sognarono
che
dubitarono
a braccia
larghe
giacciono
sulla
terra
con gli
occhi
fissi al
cielo
La voce che
grida
pace
si perde nel
silenzio
e solo le
risponde
un
vento
Sulle
macerie
delle città di
coloro
che
furono
vivi
che
sognarono
che
amarono
che
dubitarono
traccia
i suoi
enigmi
il
fumo
E si
leggono
nella
semina
gli
indizi
del
raccolto
figlio
che t’hanno
strappato
per
lasciarmi
fra i nodi della
notte
muta e senza
sonno
figlio
che per nove
mesi
ci siamo
parlati
tu
confidandomi
i tuoi segreti
d’acqua
ed io
la terra del futuro
Incendiavano tutto:
case
stazzi, capanne, con animali
e contadini
ancora vivi
dentro
C’era tanto fumo nel cielo.
Chissà perché
figlio
ho pensato alle bolle di
sapone, agli aquiloni.
Era un
martedì
Nel piazzale ci hanno messe
su due file
e il mio vicino mi ha
picchiata col calcio del fucile.
Le vecchie le hanno portate
nel bosco.
La spalla mi faceva male
quando siamo partite.
Abbiamo sentito tanti
spari
La strada era lunga. Quando
siamo entrate
un soldato mi ha toccato i
capelli. C’erano tante
casse con i proiettili, una
lampadina
e una
branda
Dopo, mi hanno dato da
mangiare.
Adesso lo facciamo ancora,
mi hanno detto.
Non sentivo più niente
quando sono andata alla finestra. Le
zolle fumavano, c’era una
fila d’alberi lontana e una mucca bianca.
Allora ho
pianto
Guarda il
telefono
mette una rosa nel
bicchiere
si
siede
considera i libri sullo
scaffale
poi la macchia del
soffitto
allunga meccanicamente la
mano
accende la
radio
canzonette
comunicati
pubblicitari
cambia
stazione
una voce
legge
le notizie
dall’assedio
di una città
lontana
numeri
indifferenti
bambini
donne
sospira
svuota i
portacenere
torna a
sedersi
spegne la
radio
guarda il
telefono
A futura memoria
...dove camminavano i
morti
e fatti di cartone erano i
vivi
Ezra Pound
- I -
Noi che sapevamo e
stringendoci
nelle spalle dicemmo:
"figurarsi!"
senza voler credere alla
pazzia
e continuammo ognuno i
propri affari
intenti fino al crepuscolo
del giorno
e distrattamente leggendo
ogni mattina
le notizie dell’orrore a
venire
come cosa che non ci
riguardasse
alla stregua di una
catastrofe
remota sulle mappe
dell’Africa
o della scomparsa di rettili
alati
e che dalle statistiche
tuttavia
venivamo esattamente
informati
dell’aumento percentuale del
tasso
del profitto nell’industria
di guerra
e pensammo: "cose troppo
complicate:
ci basta combinare pranzo e
cena"
e preferimmo intanto nei
segni astrali
decifrare il destino e la
scommessa
e che mentre si
moltiplicavano
gli indizi e la voce da più
parti
metteva in guardia eravamo
occupati
a disquisire se le dive
usassero
o meno indossare le mutande
e anzi
infastiditi corremmo a
chiuderci
le orecchie con cuffie e con
canzoni
ma fummo i primi a
consolarsi quando
compiaciuti dei muscoli
esibiti
ci sentimmo sicuri col più
forte
e che solo borbottammo:
"affari loro"
vedendo bombe e missili
cadere
su altri come noi con
braccia e gambe
e tranquilli dell’alba e del
tramonto
tornammo ad affollarci per
le strade
e continuammo a camminare in
tondo
camminare in tondo camminare
in tondo
finché poi non vi fu più
nulla
massacratori
di bambini
sciacalli delle
macerie
tigri per sventrare le
donne
tristi
macellai
per rompere
squartare
saccheggiare
bruciare
sgozzare
Ricordi?
Fu accanto
all’olmo
spaccato
o forse sulla
riva
del
mare
e ci sorprese il
mondo
nella sua
persistenza
la linea delle
nubi
all’orizzonte
persino
e la nettezza dei
colori
e il vento che
pareva
un bimbo che
corresse
ad inseguire il
sole
e poi
improvviso lo
schianto
secco della
caccia
lontano
e un latrare di
cani
e nel folto della
macchia
la bestiola che si
infrasca
e i
passi
e il
silenzio
figlio
che tutto
intorno
è fuoco e
maceria
e fumo
e urla
figlio
che ti porto
sulle
braccia
ahi
figlio
figlio
figlio
e con tre spade
d’assenza
in fondo al
cuore
Cenere
cenere
cenere
nel tuo
silenzio
il mio grido
Tenere un
capo del
filo
ricordarsi dei passi
percorsi
e delle
svolte
e dei
gradini
o di come si è
giunti
alle sale in
penombra
con le maschere di
cartapesta
abbandonate per
terra
e ancora la
prospettiva
dei
corridoi
e i
quadri
e le
volte
il mozzicone di
sigaretta
nei
portacenere
un sia pur
minimo
indizio
e il brusìo attutito delle
voci
una
sera
per varcare infine la
porta
di quella stanza
spoglia
dove insegue il
capriccio
delle
carte
la saggezza dei
giocatori
finché
di qua e di
là
la loro pace
fra le
rovine
andò lungamente
beccando
l’occhio sbarrato dei
morti
Notte di questa città
che sale
da un clamore remoto di
strade
ai piedi della vedetta che
scruta
l’ora ineluttabile la
polvere
disfatta che in cerchio
placherà
il franto baluginare di
luci
la ripetuta domanda la
sfida
babele contro il cielo di
vento
scommessa di grida
futuro
frusciare nell’erba di
serpi
minuscolo anfiteatro
d’insetti
A lungo
discussero il pro e il
contro,
lamentando tutti il
disordine che era grande,
la minaccia che li
sovrastava. E infine, vennero
a una decisione, gli
abitanti delle città
Presero ad erigere dovunque
strumenti di morte,
e si vide gente mite
invocare sangue, e
nelle piazze si levavano i
supplizi, e
alla loro paura diedero il
nome di giustizia
Dunque, ciò che volevano
bandire, la guerra,
impose le sue leggi, il suo
passo spietato
Merce divennero, e numeri,
nella conta
ormai dilagante che li
inghiottiva, lividi
riflessi di uno specchio
muto, affondando,
trascinati loro malgrado nel
gorgo:
e il resto, puoi chiederlo
al vento
A futura memoria
- II -
Era di
giorno
era di notte
era qualcosa
era assurdo
era un sospiro
era una fiamma
era
grido
era silenzio
era una vampa
era qualcosa
era vortice
era un vento
era lampo
era
mattone
era correndo
era città
era piegandosi
era nel ventre
era gridando
era dovunque
era
contorto
era la pelle
era un risucchio
era svuotarsi
era un bambino
era per strada
era dal
cielo
era nel sonno
era frantume
era un bambino
era alla gola
era il tempo
era ingiusto
era
qualcosa
era scoppiato
era un braccio
era acciaio
era una piaga
era città
era improvviso
era una
culla
era nel ventre
era crollando
era
lunghissimo
era polvere
era dovunque
era
violetto
era correndo
era l’asfalto
era dal cielo
era gonfiarsi
era lo specchio
era improvviso
era
muro
era per strada
era silenzio
era trave
era sibilo
era artiglio
era silenzio
era una
mano
era lo specchio
era gridando
era un bambino
era il tempo
era scoppiato
era nel
ventre
era assurdo
era città
era trave
era dovunque
era contorto
era
piegandosi
era correndo
era gridando
era qualcosa
era dal cielo
era improvviso
era
silenzio
era
città
Ma ecco come
il mio
malgiorno avvenne
in campo aperto che mi
schiantò una lancia
alto impennati contro i
cavalli il cielo
polvere roca ed ansimare e
sassi
chiudendosi alla mia ferita
intorno
d’armi di ferro e di rapaci
il cerchio
quella rosa infine con occhi
spenti io vidi
e la bella dama e la sua
danza e il passo
all’ultimo mio abisso
dissigillando il varco
Nome mio
d’assenza
mio rimorso
Ornella
sete della mia
terra
acqua infinita
tempo
che non torna
sabbia
perduta tra le
dita
carovana di
silenzi
nella
latitudine
d’un
ricordo
mio
deserto
mio
tramonto
mio
vuoto
stella
d’occidente
verso un cammino
d’ombra
e sulla città che
brucia
a larghi cerchi il
volo
di stormi
neri
che il tuo
sorriso
ignora
perché questo
silenzio
che ti posa sulle
labbra
come una farfalla di
gelo?
E i tuoi
occhi
che guardano tanto
lontano
dimmi
quale eterno
minuto
vanno
inseguendo?
Morto!
Morto!
Morto!
Tutto è
tranquillo
non è successo
nulla
sembra
Come al
solito
si
inseguono
nel
buio
le
finestre
Illuminate
Come
al
solito
Solo
in
lontananza
qualcuno
assicura
di avere
udito
qualcosa
Quasi
un
grido
appena
Di questa morte
che nel
sogno ardente
traccia il pensiero o
volto
scrutato come interminabile
abisso
dove l’eco si frange del tuo
nome
amato e sulla sponda degli
stagni l’erba
bagnata dalla luna lenta a
questo vento
ondeggia e dai regni
inconsulti porta
remoto un clamore
d’occidente
che nella clessidra si
rivolta
delle sue stelle
spente
Il nodo centrale
- I -
Stati Uniti del Dollaro
Strade e grattacieli
ha partorito il
dolore
uffici con
numeri
e
telescriventi
porte
ascensori
scrivanie
e tutte le luci di New
York
di San
Francisco
di
Detroit
America
superba
costruita sul
sangue
di generazioni
silenziose
sulla
fatica
dell’indio
del
negro
del
chicano
nata dal
massacro
dei figli del
cavallo
e della
pianura
Patria del dollaro e del
fucile
quanti dovettero
perdersi
nelle miniere del
rame
e del
salnitro
perché si
aprisse
l’inferno dei tuoi
bar
dove un intero
popolo
di
ubriachi
barcolla
di fronte a uno
specchio?
Come dovette
urlare
il negro
crocefisso
nella notte di scale e di
corde
dei tuoi sabati
ardenti
stretto nell’alito del
whisky
degli
incappucciati
di bibbie e
canzoni
prima che il ventre dei
supermercati
accogliesse i tuoi
figli?
Quanti
muoiono
nelle piantagioni di
banana
del Guatemala e del Salvador
variopinti
mentre si accendono e si
spengono
le
insegne
del tuo milione di
nights?
Chi terrà il
conto
dei proiettili di
Cochabamba
dove Bolivia cade
trafitta
dissanguandosi
lentamente
perché lo
stagno
si trasformi
nell’involucro
scintillante
dei tuoi week-end sui
prati?
Che cosa racconta la
luna
fra le baracche di
Caracas
nelle
Villas Miserias di Buenos Aires
fra le scalpitanti favelas
di Rio
mentre i tuoi
innamorati
si accarezzano a
lungo
sulle panchine dei
parchi?
America dei
numeri
e delle
moltiplicazioni
calzata metà del
continente
nodo
centrale
della miseria del
mondo
tanto hai
scavato
le gallerie del
pianeta
che dovunque
decretasse
il profitto della
Borsa
solo fiato e
sudore
divennero uomini
liberi
trascinando la
ruota
dei tuoi mille
ingranaggi
C’è
sempre
un muro da
varcare
un
passaporto
un
controllo
il terrore
improvviso
di
dimenticare
perché ti trovi
proprio
in quel posto e
non
altrove
la fila
lunga
delle
valigie
qualcosa
da
dimostrare
il respiro degli
altri
che
avverti
come
un’oscura
minaccia
il tonfo di un
timbro
sul
foglio
che ti
concede
di
esistere
un
neon
una
porta
un
orologio
Il nodo centrale
- II
-
Quest’America
E questo è il cuore che batte
dai mille
impiccati
nelle strade di
quest’America deforme
di quest’America che ride e
che ruba
che è un immenso ufficio
postale
dove si conta e si
tracciano
cifre in
colonna
dove chi ha
è
e chi non ha può
crepare
dove i sussidi dai denti
lubrificati
mordono la carne del
mezzogiorno
dove arrivano messaggi
continui
dove si costruisce e si
distrugge
e si costruisce per
distruggere
dove si
cammina
e si
cammina
e si
cammina
Quest’America che è un
artiglio
piantato nel
cuore
delle terre e dei
mari
quest’America che è
l’inferno
dei
grattacieli
delle
insegne
dei
bar
dei
biliardini
delle
autostrade
dei
bordelli
delle ascelle
sudate
dei
pullman
degli uomini
vuoti
che masticano
gomma
che sputano
gomma
che
uccidono
che si
uccidono
che oscillano da un posto
all’altro
che indossano
uniformi
che partono verso paesi
verdi
che
tornano
che non
tornano
Quest’America
che possiede
macchine
e
macchine
e
macchine
che si
specchia
in fondo ad un
motel
che si distende su di un
letto
che apre le
gambe
che si
vende
che conta dollari nell’ombra
delle latrine
che non riconosce più la
pioggia
che ha perduto i
tramonti
che fracassa la testa dei
bimbi
che
incendia
che
stupra
che costruisce
macchine
per distribuire
coca-cola
in ogni angolo del
mondo
Quest’America
senza
sorrisi
senza
gonna
senza
pietà
quest’America
ticchettante
che è
divenuta
un’unica società per
azioni
con
calcolatori
con
porte
con
uffici
con
segretarie
con
contabili
con
ingegneri
con morte in ogni
strada
con schedari
immensi
con
bandiere
con
columbus day
con
mayorettes
con
pianti
con
scale
con guanti senza
mani
con camicie senza
volto
con scarpe senza
piede
Quest’America
che suona e che
batte
che
timbra
che
scheda
che
calcola
che ha un ventre
immenso
che
mastica
che
digerisce
che caga
dollari
che raccoglie
dollari
che ripone
dollari
in profonde
casseforti
quest’America
che va per il
mondo
con un pugnale in ogni
mano
e cinquanta
ferite
ed è la metà senza
luce
di tutto il
continente
E noi
sospinti
da questo vento strano
con gli abiti cademmo e coi
vestiti
brandelli agli alberi
impigliati
fiato spento di domande
vane
dove luce attendemmo e non
fu giorno
ma discesa di gradini verso
un mare
che solcano i gabbiani in
strida
lunghe alle isole
lontane
A futura memoria
- III
-
Come siamo
vissuti
così ce ne
andammo
città
deserte
dopo
di noi
intatte
Il ronzio delle
macchine
ci
sopravvisse
nessuno
ci
rimpiange
il mio
bambino
la mia gioia
la mia
speranza
lui che era nato
piccolino
ma come un
albero
per crescere verso il
cielo
per vedere e per
conoscere
Non
torneremo
In questo
tempo
che è il
nostro
non c’è
mappa
non c’è
passo
non c’è
sentiero
Solo
una boccia di
vetro
per
alcuni
una manciata di
neve
un paesaggio
lento
O una
foto
o una
lettera
o uno
spillo
E una corda
interminabile
per gli altri che
la
tengono la stringono
la
percorrono con le
dita
I più
i
terribili
gli
implacati
Non
torneremo
è
certo
Non c’è
mappa
non c’è
passo
non c’è
sentiero
Ma
ricordiamo
Una moneta
consunta
tra i
denti
una
domanda
In questo
tempo
che è il
nostro
Tutti egualmente
silenziosi
col viso rivolto alle
stelle
e secondo il suo
destino
andare per le strade del
mondo
il mio
bambino
guardate
guardate il mio
bambino
e la sua
vita
sparsa nella
polvere
con tutti i suoi
tesori
Morto!
Morto!
Morto!
Volgiti a me ed abbi pietà di
me
perch’io son sola e
afflitta
Vedi i miei nemici perché
sono molti
e m’odiano d’un odio
violento
Salmo 25, 16,
19
Cani m’han
circondato
uno stuolo di malfattori
m’ha attorniato
M’hanno spezzato le
mani
forato i
piedi
Salmo 22,
16
E parlano di pace col
prossimo
ma hanno la malizia nel
cuore
Rendi loro secondo le loro
opere
secondo la malvagità dei
loro atti
Salmo 28, 3,
4
Esaudisci il desiderio degli
umili
per far giustizia all’orfano
e all’oppresso
Onde l’uomo che è della
terra
cessi di incutere
spavento
Salmo 10,
18
L’empio dice nel suo cuore:
Non sarò mai smosso
d’età in età non m’accadrà
male alcuno
Egli sta negli agguati dei
villaggi
uccide l’innocente in luoghi
nascosti
Salmo 10, 6,
8
Ma quand’anche un esercito
si accampasse contro a me
il mio cuore non avrebbe
paura
Quand’anche la guerra si
levasse contro a me
anche allora sarei
fiduciosa
Salmo 27,
3
Poiché il
povero
non sarà dimenticato per
sempre
Né la speranza dei
miseri
perirà in
perpetuo
Salmo 9,
18
Il cielo è
alto
Sulla proda del fosso il
cane
Annusa nel
vento
Cicale
sospese
Hanno ripreso il
canto
Eco larga luce
lenta
Nel riflesso
dell’acqua
Elusiva
un’ala
Lieve
disegna
L’arabesco la
scia
Al pesce e va
via
La strada alla
campagna
Unisce orizzonte
e
Covoni una vestina
avanza
Esaudisce una
canzone
Donerò il mio
fiore
A chi lo saprà
curare
Nascerà il mio astro nella
notte
Zenitale roteando
poserà
Ai piedi del mio
amore
Ciò di cui si
parla e che
spesso
si dimentica è che
infine
ognuno ha il diritto di
abitare
il mondo nel tempo che gli è
dato
sapendo che serberà il
ricordo
di un fiore forse di un
geranio
o di una nuvola quel
giorno
come un sospiro sopra il
lago
quando si strinsero le
mani
in un pegno di
speranza
e che il suo compito
appunto
sulla terra in nient’altro
consiste
se non nel proteggere un
fiore
una nuvola un
sospiro
Come non ha
importanza
smettere di
fumare
ad esempio è
già
un
ottimo
sistema o
fare
ginnastica
anche
può
essere
l’inizio
l’essenziale
è
trovare una
leva
un
appiglio
che ti
faccia
esistere
fuori di
te
qualcosa con
cui
confrontarsi
dunque
una
resistenza
anche
minima
un esercizio
modesto
e ogni giorno
soprattutto
imporsi di
uscire
di
casa
dedicare
almeno
un’ora
al
passeggio
per le strade e
le
piazze dove
cammina
una
possibile
fraternità
Il mai
fatto
E non più
macerie
se dentro di noi
scaviamo
per uscire nuovi
finalmente
alla
vita
la parte dell’ombra
sconfitta
da mani scongiuri che si
stringono
come fosse la prima volta
toccando
ogni
cosa
ed inventando nomi con lo
stupore
di un’infanzia che si apre
al mondo
al vento spargendo i semi
del sogno
per gettare le fondamenta di
costruzioni
future
che smentiscano la gabbia
che ci costringe
in calcoli
lunghi
in
polvere
in
orologi
sbriciolata
sabbia
del tempo che c’è
dato
dove ognuno
guarda
obliquamente
all’altro
e distruzione è la
legge
frantume la
ragione
e odio il
risultato
Ecco il
compito
che ci
attende
Il
mai
fatto
Ciò che
renderà
vero
quel che
viviamo
vivo
ciò che
speriamo
L’acqua scorre
e il sasso
resta
Con la sua
bambola
lungo il
fiume
la bimba
cammina
sussurra una
canzone
...bella da
niente
che sarai
regina
sarai
luna
sarai
stella
e il vento ti
porterà
via
cucendoti un
vestito
di rugiada e di
viole
t’affiderò la mia
ferita
perché sbocci come un
fiore
con te sarò
sovrana
dei regni
dell’aurora
aquila
danzante
alla periferia del
sole
erba
sottile
accarezzata
dall’amore
farfalla
taciturna
che s’incendia di
colori
bella da
niente
che sarai
regina
perché il mondo
m’accolga
in un riso di
stupore...
Con la sua
bambola
lungo il
fiume
la bimba
cammina
sussurra una
canzone
E il sasso
resta
ma l’acqua
scorre